Un rifugio per sé e per gli amici

 

«In Brescia s'è scoperto una famiglia di Martinenghi ugonotta, uno de' quali ha pubblicamente abiurato, gli altri hano voluto più tosto perdere la robba et essere banditi, che disdirsi, i quali con le donne loro se ne sono iti in Ginevra.»

Così riferiva a Carlo Borromeo, nel 1563, il vescovo di Ventimiglia Carlo Visconti, che stava partecipando ai lavori del Concilio di Trento.

Tra i Martinengo "banditi" e fuggiti dalla città vi era la contessa Laura Gavardi, vedova del conte Alessandro, definita «heretica marcia» dal prete di Ponte in Valtellina Antonio Maria Scotti, anch'egli impegnato in una solerte soffiata a Carlo Borromeo; costei infatti leggeva «come dottoressa» una «Bibia vulgare» in mezzo alla piazza di Sondrio, ed "Il fatto che una donna di antica nobiltà avesse abbandonato la patria, si fosse rifugiata in un paese di montagna e qui andasse attivamente diffondendo un nuovo modello di vivere la religione, doveva esercitare un influsso sugli ambienti sociali più elevati di Valtellina", tant'è che "con i suoi discorsi aveva «sovertito» due signori del luogo, Pietro Merlo e Geronimo Pallavicino" (Pastore 1975, pp. 104-105).

Dei numerosi figli della «dottoressa», due almeno l'avevano seguita nell'esilio resosi indispensabile dopo avere abbracciato le dottrine protestanti: Ortensia, che avrebbe sposato in prime nozze Abbondio Salis, figlio del capitano Ercole (Soglio 1503–1578; definito «aperto non solo Luterano, ma loro protettore» secondo il nunzio apostolico Giovanni Antonio Volpe, vescovo di Como, in una lettera al solito Carlo Borromeo dell'11 marzo 1561); e Ulisse, "amico di eterodossi vicentini [...] precocemente vocato all’eresia [...] esule prima a Chiavenna, poi in Valtellina, da dove assiste, realistico e disincantato osservatore, al dramma che si consuma nei territori francesi e italiani in nome di una religione militarizzata" e sviluppando "un’interpretazione personale del calvinismo [...] che non intendeva abdicare alla lezione umanistica della tolleranza e al valore profondo di una responsabilità individuale e di coscienza" (Selmi 2018, pp. 279 e segg.).

Proprio Ulisse è colui che, a Sondrio, fa costruire il Palazzo oggetto di questa mostra, apponendovi la scritta beneaugurante:

DEI BENIGNITATE HOC HOSPITIUM SIBI, PEREGRINIS, AMICIS, SUCCESSORIBUSQUE
ULYSSES MARTINENGUS DE BARCO,

UT HOC LOCO, ET TEMPORE POTUIT, INSTAURAVIT

che potremmo tradurre approssimativamente così:

per la misericordia di Dio, Ulisse Martinengo de Barco ha costituito in questo luogo e in questo tempo un rifugio per sé, i pellegrini, gli amici e i successori.

Stando a Romegialli (1834, nota a pagina 258), l'iscrizione si trovava "Sulla fronte dell’abaco sovrastante all’antico portone che dava l’ingresso al cortile o propileo" e lì rimase "dal maggio 1605 al 7 aprile 1819", quando fu rimossa forse in occasione di lavori al Palazzo. Attualmente, parzialmente rovinata e illeggibile, si trova nell'atrio del Palazzo, dove funge da appoggio per svariati materiali degli uffici municipali.

 

Un rifugio, dunque, soprattutto necessario in quei tempi di lotte religiose che sfociavano in atti e repressioni sanguinosi (culminati nel cosiddetto Sacro Macello ma con esso, purtroppo, non finiti), ma utile anche per sfuggire al flagello della peste.


 

Cfr. la pagina Bibliografia per lo scioglimento delle sigle bibliografiche.

La lettera di Carlo Visconti a Carlo Borromeo è datata Trento, 8 marzo 1563; vedi Pastore 1975, p. 105, che cita a sua volta Paschini 1919, p. 119.

La lettera di Antonio Maria Scotti, indirizzata a carlo Borromeo, è conservata presso la Biblioteca Ambrosiana (F. 119 inf., f. 319, s.l., giugno 1570) e citata da Pastore 1975, p. 104-105.

La lettera di Giovanni Antonio Volpe dell' 11 marzo 1561 a Carlo Borromeo è citata da Pastore 1975, p. 107, nota 59.